Arles 2021 / La mostra dei mostri (e non solo).
Intervista a Luciano Corvaglia

Esterno dello spazio espositivo in rue du Président Wilsons gestito dalla TAG-Tevere Art Gallery in occasione di Les Rencontres de la Photographie d'Arles 2021 - © Maria Giovanna Sodero

Esterno dello spazio espositivo della TAG Tevere Art Gallery ad Arles 2021 – © Maria Giovanna Sodero

Anche quest’anno Luciano Corvaglia, direttore artistico della Tevere Art Gallery, ha partecipato a Les Rencontres d’Arles nel circuito off del Festival, durante la settimana di apertura (dal 4 all’11 luglio). I primi giorni li ha riservati ai suoi allievi di camera oscura dell’Accademia di Belle Arti di Roma, curando una mostra di stampe analogiche dedicata al nudo. Per il resto del tempo, invece, ha esposto i “Mostri”, un progetto che porta avanti da diversi anni. È nella sede delle due mostre, in rue du Président Wilson, che l’abbiamo intervistato.

Luciano Corvaglia

PERCHÉ UNA MOSTRA AD ARLES?

Perché Arles è una manifestazione che io ho sempre sentito. Da quando ho cominciato a fare questo mestiere è stato l’appuntamento per eccellenza al quale tutti i fotografi volevano partecipare. Arles è la vetrina anche per chi sperimenta, non puoi non venirci. Non trovo altri eventi in Italia e all’estero che siano così importanti, affascinanti. Anche la cornice francese contribuisce, il paese è molto bello. E comunque lo scopo di questo festival non è commerciale, non è una fiera. Le fiere non mi piacciono, non mi piace la gente che ci va, non mi piace l’idea dello stand, della vendita. Ad Arles invece c’è un confronto tra varie sperimentazioni. Dunque, perché non venire ad Arles? Bisogna venirci, secondo me.

LA PRIMA MOSTRA ERA DEDICATA AI RAGAZZI DELL’ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI ROMA, CON FOTO DI NUDO. CI RACCONTI LA TUA ESPERIENZA CON LORO?

Dopo il lockdown ho avuto una forte depressione, non a livello creativo mio personale, ma come galleria. Ho lanciato una call proprio per partecipare ad Arles, come ormai faccio da diversi anni col progetto dei “Mostri”, ma le cose che mi sono arrivate non erano… mi aspettavo tutt’altro. Pensavo che il lockdown – stando a casa, sperimentando – avesse smosso la creatività delle persone e invece no. I “mostri” e tutto l’entourage della TAG Gallery hanno fatto poco o niente. Nel frattempo era sorta questa opportunità: avevo parlato con il professore di Fotografia dell’Accademia di Belle Arti di Roma per fare un corso di camera oscura agli studenti, così siamo partiti. Abbiamo fatto una selezione, all’inizio pensavamo che dovessero essere sette allievi, invece alla fine sono stati ventiquattro e devo ammettere che l’esperienza che ho fatto con questi ragazzi mi ha dato una spinta in più, mi ha sbloccato, mi ha liberato da quella sorta di depressione. Vederli così entusiasti e così curiosi del fatto che da un foglio bianco in camera oscura uscisse un’immagine – cosa che per loro era completamente nuova – mi ha motivato. Non conoscevano affatto la magia della camera oscura e la loro gioia, il loro interesse, mi hannp ridato energia. Al punto che penso e spero di portare avanti questo progetto.

© Maria Giovanna Sodero

Allestimento della mostra “Le nu dans la chambre noir” – © Maria Giovanna Sodero

PERCHÉ HAI SCELTO IL NUDO COME TEMA?

All’inizio ho guardato i portfolio dei ragazzi: erano troppo diversi tra loro. È vero che bisogna rispettare la sperimentazione di ognuno, però se ci avviciniamo alla camera oscura secondo me dobbiamo farlo con dei classici, poi dopo magari stravolgiamo le cose, ma intanto biisogna porre le basi. Come quando si impara a suonare: si comincia con le composizioni più semplici dei classici, non improvvisando un pezzo jazz. È lavorando su un tema classico che si capiscono meglio le difficoltà e le potenzialità della camera oscura e il nudo rientra perfettamente in quest’ottica. Il nudo in bianco e nero è il classico per eccellenza. L’abbiamo fatto tutti, da quando è nata la fotografia. E poi il nudo ti dà la possibilità di lavorare bene con il chiaroscuro nella fase di stampa.

Mostra "Le nu dans la chambre noir" - © Maria Giovanna Sodero

© Maria Giovanna Sodero

AL TEMPO DI INSTAGRAM SORPRENDE CHE DEI RAGAZZI SIANO INTERESSATI ALLA CAMERA OSCURA. L’ACCADEMIA È UN’ECCEZIONE O È UN FENOMENO GENERALE?

Succede in generale. Quello che manca alla fotografia di adesso è l’aspetto artigianale. Quando ti accosti a una forma d’arte c’è sempre una forma di artigianalità che la rende ancora più affascinante. Forse è un discorso antico, ma se penso di fare lo scultore so già che mi sporcherò le mani di qualcosa e lo voglio fare, mi sento immerso nella materia. Con il digitale questa sensazione non ce l’hai, stai davanti a un monitor. Anche la macchina fotografica non fa più rumore, non hai un oggetto meccanico tra le mani che potresti anche riparare, con il digitale non interagisci più di tanto, funziona o non funziona. Quando poi guardi gli scatti ti metti davanti a un monitor, come facciamo per moltissime altre cose per molte ore al giorno, e così l’operazione non si discosta dalla banalità del quotidiano. Per arrivare infine alla stampa che è anch’essa lontana dall’essere umano, affidata com’è a una macchina che va per conto suo e se non va ti limiti a chiamare un tecnico. Sono tutti elementi distanti dall’uomo faber, che crea con le mani, che sente gli odori. Tutto questo non ce l’hai con il digitale, mentre con l’analogico sì. Non voglio dire che questo sia meglio di quello, assolutamente. Anzi, potenzialmente il digitale è molto più completo rispetto all’analogico, ti permette di fare cose che l’analogico non ti permette, però è distante da te come essere umano, perché non soddisfa altri sensi oltre la vista, non soddisfa il tatto, l’odorato, non avverti il rumore, né la sensazione che è qualcosa di unico quello che stai facendo. Non avverti nemmeno più la tensione che tutto dipende da te, che non puoi sbagliare perché non puoi tornare indietro.  Nell’analogico, invece, i tasti mela-zeta non esistono. Questo fa la differenza.

LA SECONDA PARTE L’HAI DEDICATA AI “MOSTRI”, UN PROGETTO CHE PORTI AVANTI DA QUALCHE ANNO. CHI SONO I MOSTRI?

Sono i fotografi. Li ho chiamati “mostri” perché stando in camera oscura – come mi ha detto Francesco Zizola qualche anno fa e anche altri – sono diventato una specie di confessore per loro. Più che confessore sono un analista, un analista spicciolo se vuoi, ma in qualche modo capisco la psicologia che sta dietro a tante foto. Perché, stando al buio per stampare, stimoli la tua sensibilità e io l’ho fatto anche nel rapporto con i fotografi. Avendoli vicino, sentendo la loro presenza e le loro parole, capendo poi bene chi sono fondamentalmente, è uscito fuori che un po’ tutti si sentono prime donne. Non è una critica, è solo una constatazione e forse è anche giusto che sia così. Per esempio se un fotografo entra qua dentro e vede la mostra, normalmente la prima cosa che dice è che lui l’avrebbe fatta meglio. Sto parlando di professionisti, non di fotoamatori della domenica. È questo il mostro che sta dentro ognuno di noi, quella vocina che ti dice che tu sei meglio degli altri, che devi esporre le tue foto e che sarai sempre il migliore. Il mostro è questa specie di alter ego che abbiamo dentro tutti e che io vedo nella fotografia, ma che appartiene anche a tutte le altre arti, anzi è proprio l’essere umano che è così. Però in fotografia questo lo sento, lo percepisco, lo vedo da come si muovono i fotografi stessi.

RACCONTANO I TUOI ALLIEVI CHE TU DISTRUGGI I PROVINI DI STAMPA E TUTTO CIÒ CHE NON SIA LA STAMPA DEFINITIVA. È VERO?

Questo non è tanto legato ai provini (naturalmente intendo non i provini a contatto, ma i provini che si fanno in camera oscura per ottimizzare la stampa), quanto alla stampa finale. Dopo tanti anni in camera oscura posso dire con sicurezza che quando una stampa viene male va buttata, è una regola che fa parte del mestiere dello stampatore. Perché se quella stampa la regali al fotografo o il fotografo la regala a qualcuno, non porta con sé la memoria dello scarto, da nessuna parte c’è scritto che quello è uno scarto. Vent’anni dopo si saprà solo che quella è una stampa che ho fatto io. Avrei dovuto buttarla, ma non l’ho fatto, quindi è come se fosse un messaggio sbagliato messo dentro una bottiglia. Prima o poi uscirà fuori e qualcuno si chiederà chi ha fatto quella stampa fatta male. Ecco perché le stampe imperfette vanno buttate.

RISPETTO AI SERVICE ON LINE, COSA OFFRE DI PIÙ LA STAMPA FATTA A DIRETTO CONTATTO CON UN PROFESSIONISTA?

Offre la possibilità di un rapporto diretto tra due persone. Una volta non c’erano alternative, per stampare eri costratto a uscire di casa per andare al laboratorio. Qui potevi conoscere altri fotografi o assistenti di fotografi, gli assistenti si conoscevano tra loro, conoscevi lo stampatore – di solito sempre burbero – che era un artigiano con una sua esperienza. Ti confrontavi, confrontavi il tuo lavoro con quello degli altri. Lo stampatore aveva lo stesso ruolo del direttore della fotografia nel cinema, era come andare al montaggio o a fare la post-produzione di un film. C’è un rapporto stretto tra l’aspetto artigianale e artistico della regia e il ruolo dello stampatore che migliora il tuo lavoro fotografico in funzione di quello che sei tu e che vuoi tu. Tutto questo io non so proprio come si possa riprodurre on line. Probabilmente molti lo fanno da soli, scavalcando il ruolo del direttore della fotografia. La post-produzione la fa il fotografo stesso, senza avere le competenze dello stampatore, cioè di un artigiano che tra l’altro non era presente al momento dello scatto. Anche quando scrivi un libro o crei qualcosa, serve qualcuno di esperto che sia fuori dal tuo contesto per essere il più oggettivo possibile nel percepire il tuo lavoro, perché lui è già fruitore e sa come migliorare il messaggio che tu volevi dare. A quel punto lo stampatore diventa il trait d’union tra la tua idea e il miglior modo per renderla fruibile all’esterno. Tutto questo stampando on line si perde completamente.

Monica Di Giacinto / Rosebud2